La recensione del venerdì. Questa riguarda La casa del deserto di Catriona Ward ed è uscita settimane fa su TuttoLibri della Stampa.
A Sundial si compivano esperimenti sui cani, nell’ingenuità hippie che fosse possibile eliminare il male intervenendo direttamente sul cervello. Ward si ispira dichiaratamente al progetto MKULTRA, il programma clandestino della CIA che negli anni Cinquanta e Sessanta usava cittadini ignari per sperimentare farmaci per il controllo mentale, nella folle ipotesi di creare assassini inconsapevoli durante la guerra fredda. La pratica ha ispirato almeno due romanzi di King, L’incendiaria e L’istituto, appare in Infinite Jest di David Foster Wallace e, più recentemente, nella serie Stranger Things, dove Undici riesce a sfuggire agli esperimenti. Ward si sofferma su un aspetto, l’installazione degli elettrodi nel cervello dei cani, per “telecomandarli” e provare a estirparne l’aggressività.

“Proprio non ti capisco, eppure sei un professore!”. Così si sente apostrofare Immanuel Raat, detto Unrat (ovvero Spazzatura), ne L’angelo azzurro, che Josef von Sternberg trasse nel 1930 dal romanzo di Heinrich Mann. La storia è quella di un insegnante tirannico che cade vittima della malia amorosa per una ballerina, smarrendo senno e lavoro per aver agito contro il decoro, pur avendolo considerato indispensabile durante il suo insegnamento: perché ogni risata o distrazione era per lui “una ribellione al potere pubblico”.
La frase “eppure sei un professore” probabilmente non ci sarà nell’istruttoria interna che riguarda Christian Raimo, insegnante e scrittore.  Ma, ci scommettiamo, il decoro sì. L’indagine disciplinare è stata annunciata all’inizio di aprile dopo la sua partecipazione alla trasmissione L’aria che tira, quando aveva affermato: “Che cosa bisogna fare con i neonazisti? Per me bisogna picchiarli”.  Non è malizioso pensare, però, che probabilmente l’approfondimento disciplinare riguarderà soprattutto i numerosi articoli e post su Facebook dove Raimo prende le distanze dall’orizzonte pedagogico di Valditara: in questo modo potrebbe essergli contestato un danno d’immagine al ministero. Perché, e questo è il bello, esistono articoli del codice etico che impongono di astenersi su giornali e social “da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza”.

“All’ improvviso, apre uno spazio bianco in un racconto. In quel bianco trascorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato: il tempo passa senza che nessuno se ne accorga; e noi avvertiamo, al tempo stesso, il senso della continuità e quello della lacerazione che formano il tessuto diseguale della nostra vita”.
Un vecchio e bellissimo articolo di Pietro Citati per Alice Munro, la più grande, la più umile anche.

L’ultima cosa che si può dire tornando dal Salone del Libro di Torino è che manchi una comunità letteraria. Non vedi? C’eravamo proprio tutti, chi a presentare il proprio libro, chi a presentare il libro altrui (alcuni bellissimi, invero, come Triste Tigre di Neige Sinno, che ha vinto il Premio Strega Europeo). Eravamo insieme nelle code interminabili per i bagni, insieme nelle code per il caffè, insieme a fumare una sigaretta agli ingressi dei padiglioni. Ci siamo salutati e abbracciati, con la promessa di vederci e sentirci presto. Abbiamo sospirato sul mondo che ci circonda, riso per una battuta divertente, ci siamo immalinconiti per gli anni che passano. Abbiamo bevuto. Siamo andati a cena. Siamo andati alle feste. Abbiamo condiviso un taxi.
Abbiamo contato i poliziotti presenti (alcuni). Abbiamo ascoltato (pochi) con sconcerto Faccetta nera dagli altoparlanti dello stand Città di Torino (hackerato, è intervenuta la Digos).
Ah, due di noi, Zerocalcare e Christian Raimo, sono usciti per parlare con le ragazze e i ragazzi che manifestavano in favore della Palestina.
E’ che il Salone che è stato bello e grande e partecipato, come altre grandi occasioni d’incontro, ti porta a interrogarti su quella che un tempo si chiamava comunità letteraria. Che secondo me esiste, e non è solo quella che ci si immagina leggendo le cronache, con le mani occupate da calici di vino e stuzzichini al formaggio. Ma che forse non trova ancora il modo di riconoscersi fino in fondo, e di incidere fino in fondo.

Sette Saloni dopo, domani torno al Salone del libro di Torino. Ci torno con uno stato d’animo strano: perché è il primo Salone da ospite e l’ultimo da conduttrice di Fahrenheit, ma ci torno comunque con la gioia che mi ha accompagnato in questi sette anni e con cui ho attraversato un’esperienza non dimenticabile.
Oggi c’è un nuovo gruppo di lavoro, di cui fanno ancora parte vecchi compagni di strada, a cui vanno gli auguri miei e, spero, di tutti. Sul Corriere della Sera Paolo Di Stefano ricorda stamattina una frase di Ernesto Ferrero: “Questa voglia di essere presenti ai grandi eventi culturali rivela una passione politica non soddisfatta da nessuno. È come un’offerta di disponibilità, un’esigenza di impegno che non trova ascolto altrove”.
Non so se sia ancora così. Sicuramente c’è voglia di stare insieme al di là dell’occasione, al di là del “vado e saluto tutti” e del “vado a presentare il mio libro”. Di questo occorre tener conto. Per il resto, ci vediamo a Torino.

Va così. Fino a dopo il Salone gli aggiornamenti del blog saranno discontinui e saltellanti, come me. Quindi, per ora, un articolo uscito a marzo su Linus (prometto che recupererò).
Parlo di sciamane: i libri di Mary Poppins ritradotti, anzoni funebri per ragazze quasi morte di Cherie Dimaline, Quando avevamo le ali di Ayanna Lloyd Banwo

IL RE DEI MOSTRI

Oggi esce per Salani Il re dei mostri. È la seconda avventura del Senzacoda che mi ha dato gioia e divertimento. È nata nella mia testa da quando, un paio di anni fa, il gatto Altair rimase chiuso per una notte dentro il garage dei vicini. Dopo il panico e il sollievo, mi sono messa a pensare, e il benedetto “e se?” mi ha portata in un’ avventura dove fra i gatti di Ulthar (sempre grazie, Lovecraft) e i mostri sgangherati che abitano i sogni dei bambini nasce una controversa alleanza. Perché quando le tenebre si infittiscono bisogna unirsi.

E così è passato l’emendamento che permette ai No Choice di annidarsi nei consultori, agitando, si suppone, gli spettri che hanno sempre evocato, e sussurrando la parola “assassina” più o meno apertamente. Inutile che assicurino che non lo faranno. Lo hanno sempre fatto. Anche se ora, sul sito di Pro Vita & Famiglia, assicurano:
“non è assolutamente vero, come propinato da fake news ideologiche in questi giorni, che l’emendamento farà entrare le associazioni pro life nei consultori.”
Ah no? L’emendamento approvato dice che le Regioni possono “avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”.
Vediamo la qualificata esperienza. Non so quanta possa chiamarsi “esperta” la «onlus laica e aconfessionale» Pro Vita&Famiglia. La stessa che nel 2018 riempiva le città con il manifesto «Sei qui perché tua mamma non ha abortito», che nel 2020 ha pubblicato le immagini di due feti con la scritta «Quale dei due è stato concepito da uno stupro?”», che ha depositato una proposta di legge di iniziativa popolare per far sì che il medico della ecografia pre-aborto sia obbligato a far sentire alla donna il battito cardiaco.

Sono accadute parecchie cose in questo week end e credo che molti di voi le sappiano già. Parlo della censura televisiva ad Antonio Scurati, nonché di quelle, emerse subito dopo, a Nadia Terranova e Jennifer Guerra. Non è la prima volta che avviene, d’accordo, ma è inquietante la modalità, è inquietante il contesto.
Ma non è di questo che voglio parlare oggi.
Voglio parlare di un’altra cosa, che è molto importante quanto rimossa. In questi giorni, dopo il video collettivo in cui, in cinquantatre fra scrittori e scrittrici, abbiamo letto il monologo di Scurati, non sono stati pochi coloro che hanno detto: bravi, ma dove eravate ai tempi del greenpass? La controreazione, per lo più, è stata di scherno, e la terribile parola no-vax è tornata a circolare.
Ebbene. Su questo blog ho più volte espresso dubbi giganteschi su come è stata raccontata la necessità del greenpass. E ho più volte linkato quanto hanno scritto e ripetuto i Wu Ming, cui l’onestà e il nitore con cui hanno provato a intervenire sono costati parecchio.
Linko di nuovo perché, quattro anni dopo la pandemia, ritengo folle non aver riaperto il discorso, come se non fosse accaduto nulla. E non è per rispondere a chi chiede “dove eravate?”. Molte e molti di noi ci sono sempre stati, hanno sempre provato a problematizzare e a capire. Magari non ci avete letto, e ci sta. Ma non bisogna neanche usare la domanda per minimizzare la situazione di oggi o per screditare chi contro questa situazione si batte. Sarebbe non solo ingiusto, ma pericoloso.

Ero terribilmente inconsapevole dell’uso improprio dei dati neurali (fasce da meditazione, per giocare, per trovare un partner on line), e chiedo scusa a chi invece di queste cose si occupa per la mia ignoranza. Stamattina, però, ho letto che in Colorado è stata approvata una legge per impedire che le aziende utilizzino i dati sensibili dei nostri cervelli e sono ripiombata in pieno Philip K. Dick.
Il mondo è andato avanti, direbbe un pistolero di mia conoscenza: non mi spaventa tanto il mio fisiologico rimanere indietro ma la forza di volontà, il tempo e la curiosità necessari per capire almeno una parte di quel cambiamento. 
Questa è una parte delle riflessioni che intendo fare da domani a domenica a Torino in “Ho perso il Novecento”, che è una bellissima idea di Nicola Attadio e che coinvolge la sottoscritta e Paolo Di Paolo in tre incontri (più uno al Salone del Libro), in dialogo con un ospite: a Torino saranno Guido Catalano, Filippo Solibello e Mario Calabresi, rispettivamente domani alle 21 al Circolo dei Lettori, sabato e domenica alle 16.30 al Politecnico di Torino nell’ambito di Biennale Tecnologia.

Loredana Lipperini
Torna in alto